martedì 14 agosto 2012

I quattro scenari a cui l’Italia in crisi va incontro


di ANTONIO COSTATO*

In molti sperano che il punto di rottura
 si consumi con una Rivoluzione. Catalizzatore potrebbe essere un evento traumatico come il gesto di qualcuno dei molti decisi a tutto che realizzi che con un suicidio si occupano  le pagine dei giornali mentre con un omicidio politico quelle dei libri di storia. Ed è effettivamente possibile che la serie di gesti  estremi di cui si legge in questi mesi conosca un crescendo di tale fatta, e magari una teoria di emuli a seguire. Tuttavia non sono convinto in Italia si arriverà mai ad una Rivoluzione. Per due motivi. Il primo è che non esiste una tradizione in questo senso. Mai nei secoli in Italia è stata fatta una Rivoluzione. Gli ultimi moti di cui si ricordi che hanno investito l’establishment capitolino al punto da metterne in pregiudicato la continuità risalgono all’epoca di Menenio Agrippa, 2500 anni fa.
Roma quella volta se la cavò per un pelo e il popolo fu calmato negli umori non solo dalle chiacchiere del console e dal suo famoso apologo ma dall’adozione di una politica sociale che salvaguarderà la capitale nei secoli, quella del  panem et  circenses. Anche nei momenti più bui, come peraltro sono i nostri giorni, i palazzi romani sono protetti da una fascia di pasciuti notabili e di popolino al quale non viene fatto mancare di che vivere e divertirsi. E così perfino la Roma del 2012 quella degli Alemanno e dei Patroni Griffi, per capirci,  non conosce cassintegrati e i drammi legati alla mancanza di  lavoro e alle nuove povertà che vediamo  altrove. Leggi di spesa estemporanee, adozione di provvedimenti speciali,  deroghe, accettazione di situazioni tra le meno giustificabili in ossequio del quieto vivere, sono la regola.
Difficile quindi immaginare una Presa del Quirinale o cose simili come già accadde invece per la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno. Chi ha provato a marciare su Roma con il proposito di cambiarla ha sempre fallito. Una sorta di muraglia di impiegati pubblici e beneficiari in grande e piccolo dello status quo protegge i centri di potere. E chi ha creduto di essere arrivato a conquistare Roma per il solo motivo di averne varcato le mura e occupato fisicamente i palazzi si è ritrovato poco dopo conquistato e mutato a sua volta o paralizzato nella sua azione dalla gelatina della capitale che anche sui più convinti ha lo stesso effetto prodotto dall’ambra su quegli insetti di ere geologiche primordiali che troviamo nei musei di scienze naturali immobili all’interno di una goccia colatagli senza accorgersene addosso. Il secondo motivo che mi convince dell’improbabilità di uno scenario di questo tipo è l’impossibilità di raccogliere attorno al progetto una  élite, che sempre ci deve essere per dare corso ad una Rivoluzione intesa in senso classico.
Il controllo a cui siamo tutti sottoposti attraverso strumenti di identificazione continua degli spostamenti, degli acquisti, delle frequentazioni (sino agli accessi alle informazioni) impedisce che si creino gruppi sovversivi così come accadde negli anni ’70 del secolo scorso o andando indietro nel tempo negli anni ’20 e ’30 o prima ancora all’epoca del cosiddetto Risorgimento. Il fatto che una Rivoluzione di stampo classico sia improbabile non sta però a significare che in Italia non ci saranno dei cambiamenti. L’esperienza del  déjà vu fa immaginare numerose ipotesi di evoluzione della situazione. Assunto che il patto che tiene unito territori e classi sociali è da riscrivere e che la nuova stesura non potrà che avvenire attraverso un percorso naturale, e non necessariamente semplice e senza traumi (e non certo per la mano di qualche altro Uomo della Provvidenza partorito dal sistema stesso), gli scenari ai quali andremo incontro sono molteplici. Ed il materializzarsi di uno non esclude l’altro.
Un primo è quello di tipo Giapponese. Il blocco sociale dominante non molla, le giovani generazioni non si sostituiscono alla gerontocrazia per mancanza di coraggio o per la mancanza oggettiva di numeri causata dal calo demografico. Il paese si consuma senza traumi ma lentamente, come una candela. Con l’agonia allungata da nuove scuse per rimandare sine die le riforme e aumentare la spesa pubblica come gli  eurobond, i  project bond, la golden role, ecc.. Si fanno autostrade che nessuno percorre, un piano di edilizia scolastica per un paese con l’età media di 43 anni e così via. Fino alla fine.
Il secondo scenario è quello di tipo Greco. Il debito pubblico diventa ingovernabile per l’incapacità di applicare il rigore in quella parte del paese che è da sempre fuori controllo e magari perché saltano fuori buchi fino a ieri nascosti, negli enti locali, nelle partecipate pubbliche, nelle banche, nella previdenza, nei “conti d’ordine” dello Stato (ricordiamo che il mercato stima il Tesoro abbia sottoscritto derivati sulle proprie emissioni per 300 miliardi di euro e che gli stessi abbiano oggi un market to market negativo di oltre 30). Tra quanto ho appena citato e i famosi 100 miliardi di debiti tra Pubblica Amministrazione e Fisco e il calo del numeratore effetto della recessione salta fuori che il nostro debito consolidato non è del 120% ma del 130% o 140% rispetto al PIL e la comunità finanziaria ci induce alla ristrutturazione non prima di averci imposto una cura sul modello di Atene. Va precisato che la comunità finanziaria si sta preparando ad un evento del genere e da mesi sta scaricando sulle nostre banche il peso del debito pubblico italico del quale oramai detiene solo poco più del 30%.
Un terzo scenario è quello di tipo Argentino. La morsa di debito e manovre per contenere e rimborsare lo stesso diventa insostenibile e si decide di non onorare gli impegni e di uscire dall’euro. Si torna alla lira (con la corallizzazione dei conti correnti e un rapporto Lira /Euro che il primo giorno magari arriverà a 4000:1 o 2:1 se, per ragioni di praticità, si adotterà un nominale uguale alla moneta unica) felici di esserci liberati del giogo del rigore pur nella consapevolezza di venire espulsi dalla comunità finanziaria globale e vederci interdetta la possibilità di emettere debito sino a che il mercato si dimenticherà del nostro default. La qual cosa non è necessariamente un male, specie se si ha già introdotto l’obbligo di pareggio in Costituzione (N.B. anche se resta da capire come si farà ad uscirne senza soia, senza petrolio e con da esportare solo manufatti e idee).
Un quarto scenario comprende la scomposizione del paese. La storia racconta di una penisola che nei millenni è stata un coacervo di popoli retti in forma autonoma o etero governati, ma sempre per ambiti territoriali distinti (pensiamo a quanto successo prima e dopo la caduta di Roma, alla lunga stagione del medioevo, al Rinascimento o al sistema di signorie e regni sino all’Unità). Le diversità culturali che ancora il paese mantiene, la differente scala di valutazione delle priorità e necessità che si coltivano dalle Alpi alla Sicilia, gli orgogli e le rivendicazioni mai sopite e il clima di reciproche accuse che sempre si crea nei momenti in cui non ce n’è abbastanza per tutti, potrebbero aprire uno scenario che non chiamerei Jugoslavo, e neppure Cecoslovacco, ma piuttosto Cavouriano. Cavour, come peraltro Cattaneo, riconosciuta l’opportunità di creare un ambito il più vasto possibile, considerava come confacente alla situazione della penisola una organizzazione statuale di tipo Confederale.
All’epoca si ragionava di tre stati, Nord, Stato Pontificio e Mezzogiorno. Con una (debole) rappresentanza nazionale affidata, per comprensibili ragioni,  al Capo dello Stato 183 Come andrà a finire Pontificio. Oggi potremmo immaginare un certo numero di macro regioni con in comune la politica estera, la difesa e poco altro ma con conti separati e forse anche divisa di riferimento. Difficile immaginare infatti un Nord Est che si allontani dall’euro e dall’Europa per condividere le sorti del sud. E altrettanto difficile è immaginare il Mezzogiorno che si adatti al rigore teutonico, inutile per gli obiettivi di benessere che i suoi cittadini inseguono e che tutto sommato hanno da sempre avuto alla portata senza sottostare a modelli comportamentali imposti dal nord e che non solo non hanno funzionato ma hanno distrutto quel tanto di buono che nei secoli si era costruito se è vero (e lo è) che l’uomo si è inurbato e ha prosperato prima e molto più a lungo a Siracusa che nel Magdeburgo.
*Testo tratto da Round Trip, scaricabile qui.